Ago

(Immagine © LaPresse tratta da qui)

Molti pensano che Checco sia il mio Capitano per eccellenza, ed è così: Checco è stato e per sempre sarà il mio Capitano Eterno.
Ma non il primo, seppur mai secondo per importanza, quando mi venga in mente la definizione “Capitano della Roma”. Il mio primo Capitano fu Agostino Di Bartolomei, detto Ago. Persona tanto seria quanto passionale nei momenti che contano, professionista esemplare, romanista vero, faro di tante contese in mezzo al campo, stoccatore dalla distanza, capace di potenza e precisione.
La foto qui sopra è famosissima e lo ritrae in ginocchio, esultante, abbracciato da Carletto Ancelotti di spalle con la maglia numero 8, dopo aver segnato un goal di fondamentale importanza verso il cammino dell’agognato scudetto 1982-83, quello in cui la Roma giunse in porto col vessillo, per citare le sue stesse parole, del Capitano di quella squadra leggendaria.
Sempre ad Agostino si deve la più bella definizione de noantri che tifiamo la Maggica, parole che tutt’oggi ci riempiono il cuore di orgoglio e gratitudine: ci sono i tifosi di calcio e poi ci sono i tifosi della Roma. Daje.

Agostino è stato poi anche di più, per me: nell’unica volta in cui l’abbia visto giocare con indosso la maglia della Roma, che è poi anche l’unica in cui abbia visto giocare il Divino, insieme a lui, seppe mostrarmi, in quella sola occasione che sarebbe stata sufficiente per una vita intera, la via per conquistare il mio, di vessillo. Figlio di Roma, Capitano e bandiera. E io con lui. Capitano e bandiera di certo no, che per ambire a certe cose occorre ben altro. Ma figlio di Roma sì, assolutamente. E, dunque, grazie, Ago. Mio primo Capitano. A ben vedere, ripensandoci, il più importante di tutti.



Anna

Ana de Armas, attrice e modella cubano-spagnola, in un’immagine tratta da qui.

Amore giovanile di Bill non parimenti corrisposto, che ne ha turbato molti giorni e non poche notti, il cui pensiero e la cui presenza gli provocavano lo stessa irresistibile attrazione che la diosa habanera qui ritratta (che un poco la ricorda, Anna) provocherebbe a chiunque.

Poi a un certo punto gli è passata, ma c’è voluto del tempo.
Anni.
E centinaia di chilometri.
E fiumi di inchiostro.
E psicoterapia.
No, scherzo, quella non è stata necessaria.
Forse.

Ma no dai, siamo seri.

Ok. Non è stata necessaria.
Tutto il resto, invece, sì.
O, per meglio dire, inevitabile.

Come Thanos?

Maddai!


Barbari mutanti

“Barbaro mutante” è una definizione di Alessandro Baricco contenuta nel suo libro I Barbari. Saggio sulla mutazione.

Secondo Baricco (qui in un’immagine tratta da Wikipedia), i barbari odierni sono mutanti dotati di branchie, che surfano fra le varie esperienze e conoscenze cogliendo da ciascuna di esse gli aspetti salienti o di loro maggiore interesse, per poi passare oltre.

In ciò appaiono molto diversi, dunque barbari, rispetto agli eruditi di un tempo, cultori e conoscitori profondissimi di una sola branca del sapere o al massimo di un paio.

Il termine “mutante” mi è poi particolarmente caro perché, in un certo senso, mi fa sentire idealmente un X-Men.


Bryan

Per raccontare Bryan Cristante (qui in un’immagine tratta da qui) e sottolinearne l’importanza nella rosa della Roma, sarebbe sufficiente ricordare le parole spese per lui da Daniele De Rossi – non certo uno qualsiasi – quando ebbe a dire che, come compagni di squadra,

avrebbe voluto molti altri Cristante.

Un’affermazione che metteva in risalto la professionalità e la dedizione alla causa del ragazzo, adattabile con profitto in così tanti ruoli che gli manca giusto di giocare prima punta e portiere, poi ha fatto tutto.

A volte criticato da un pubblico troppo esigente e superficiale, a causa di prestazioni che casomai non rubano l’occhio ma mettono tanta sostanza, esperienza e non poca tecnica, Bryan è titolare inamovibile del centrocampo giallorosso (e, alla bisogna, centrale di difesa), da ormai parecchi anni e vari allenatori diversi, nessuno dei quali si è mai nemmeno sognato per sbaglio di fare a meno di lui anche solo per qualche minuto.

Dopo la vittoria della Conference League nel maggio 2022, i festeggiamenti della squadra al Colosseo sul pullman scoperto ci hanno mostrato una versione goliardica del ragazzo che non gli si conosceva, rivelandone doti da autentico mattatore. Ecco l’immagine esplicativa, insieme a Elsha che custodisce il trofeo, Lollo che si atteggia a ragazzo del muretto e uno di spalle che parrebbe Chris Smalling ma non è certo; del resto è tanto che non lo vediamo1 e poesse facile sbagliarsi:

(Photo credits)

Undici, undici, undici Cristante, noi vogliamo undici Cristante!

Daje tutta Bryan!


1 Il sottile riferimento è dovuto al fatto che, dall’inizio campionato 2023/24, Smalling è sparito di scena dopo un paio di prestazioni parecchio sotto tono, accusando un problema fisico che – si dice – sarebbe stato di facile e pronta soluzione, ma pare che i suoi orientamenti salutistici fossero di diverso avviso e che dunque stia ancora cercando di capire se è lui oppure siamo noi. Sconcertante esempio di professionalità solo apparente, va bene la salute prima di tutto, ma se uno che – di mestiere – investe sul proprio corpo e lo usa come strumento e si rifiuta di prendersene cura nei modi corretti, ecco, qualche dubbio sull’etica professionale ti viene. Poi magari un giorno si scoprirà che gli sono state attribuite colpe infondate, ma un po’ di chiarezza fin da ora non guasterebbe. Il suo stesso allenatore lo gradirebbe assai.


Carlo Ancelotti

Per molti di coloro che (beati loro) sono giovani e di certe leggende conoscono solo le imprese più recenti, Carlo Ancelotti da Reggiolo è soltanto – si fa per dire – uno dei più grandi e vincenti allenatori della storia, sia fra quelli che siano mai esistiti che fra quanti sono ancora in attività. Qualcuno si spingerà forse più in là con i ricordi

e lo individuerà, là in mezzo, a comandare nel centrocampo del Milan degli olandesi e di Arrigo Sacchi prima e di Fabio Capello poi, una delle squadre italiane più forti, belle e vincenti che si siano mai viste.

Ma Carlo Ancelotti, Carletto nostro, è stato molto altro e molto prima: giovane “vecchio” e capitano della Roma, campione d’Italia con indosso la maglia più bella del mondo, compagno di squadra di gente del calibro di Agostino, Bruno Conti, Falcão, Pruzzo, Nela – e qui mi fermo perché potrei andare avanti all’infinito -, allievo del Barone, ben prima di qualunque profeta fusignanese e di qualsiasi stella olandese (seppur si stia parlando di stelle autentiche, un intero firmamento, of course).

Lui stesso, di recente, ha avuto occasione di ribadire questo legame inscindibile.
Sempre ave, Carlè. E chissà, forse un giorno raccoglierai l’eredità del Barone e di Ago e ci condurrai, ancora una volta, fino in porto col vessillo.
Che bello sarebbe, ve’? Daje Carlè!


Checco

Francesco Totti, qui immortalato a 21 anni in un mio scatto dell’agosto ’98, durante la preparazione estiva della Roma a Predazzo in val di Fiemme (TN).

Impossibile tratteggiare in poche righe l’immensità sportiva di un giocatore unico e universalmente riconosciuto come leggendario.

Per quello ci si può in parte affidare ai freddi numeri snocciolati su qualunque pagina web a lui dedicata.

Ma solo In parte, perché i numeri non sarebbero comunque sufficienti a esprimere la meraviglia e la gratitudine sempre vive in chi ne abbia potuto ammirare la carriera, non di rado da vicino, nel corso di un quarto di secolo.

L’affetto che nutro nei confronti di Francesco (che chiamo familiarmente Checco, Capitano Eterno o “la luce1“) travalica da sempre l’aspetto sportivo, fino a renderlo persona cara quasi come se uno fosse di famiglia.
Che è proprio una delle cose che lui non vorrebbe sentirsi dire, ma siamo fra pochi intimi e confido che nessuno glielo vada a riferire.


1 Tengo a sottolineare come questa mia definizione risalga a tempi non sospetti, parecchi anni prima dell’occasione in cui l’ex direttore sportivo Walter Sabatini ebbe a dire in pubblico, a proposito di Francesco, che fosse come “la luce sui tetti di Roma al tramonto”. Sia messo agli atti.

Cose che Checco non vorrebbe sentirsi dire

Nella sua autobiografia1 Un Capitano, scritta con Paolo Condò, Francesco afferma di restare imbarazzato da certe esternazioni affettive rivoltegli dai propri tifosi.
In primo luogo, dice, perché è timido.

Poi, perché non si capacita di cosa abbia fatto mai per meritarsi così tanto e persistente amore.

Su questo punto io e molti altri potremmo forse dargli qualche suggerimento ma, provando per un attimo a mettermi nei suoi panni (see, vabbè), in fondo lui è solo – si fa per dire – riuscito a realizzare il proprio sogno di bambino e a farlo durare per 25 anni. Sempre sia lodato.

Ultimo ma non meno importante, ancora si meraviglia di sentirsi approcciare quasi come se fosse uno di famiglia, e in modo particolare non sopporta di sentirsi dire cose tipo “per me sei come un figlio/un fratello”. Sostiene che sia una responsabilità troppo grande, perché un idolo sportivo va bene, dura finché dura poi si cambia poster e si appende quello dell’eroe di turno2 (parole sue). Il legame con un familiare invece è una cosa sacra, dura tutta la vita, è un peso troppo grande.
Anche su questo aspetto provo a capirlo. In effetti, pensare che esistano decine di migliaia per non dire milioni di sconosciuti che ritengono di essere suoi padri, madri, zii, zie, fratelli sorelle e cugini di vario grado, sparsi per tutto il globo, dev’essere piuttosto inquietante.

Casomai non aveste letto il libro e non foste informati di certi dettagli, ora siete avvisati su cosa non dirgli nel caso lo incontraste. Non ringraziatemi: oltre che un piacere, è stata una lettura molto istruttiva prima di tutto per me.


1 Della quale qui sopra sfoggio orgoglioso la mia copia personale acquistata il giorno stesso dell’uscita, il 27 settembre 2018. Che casualmente è stato anche il giorno del suo 42° compleanno, in puro stile Guida Galattica. Non che avessi mai avuto particolari dubbi: la “mia” risposta fondamentale alla vita, l’universo è tutto quanto è sempre stata Checco, autobiografia compresa, ah ah!
(Scusa Douglas, non ho resistito)

2 Sarà. Da parte mia le immagini dei miei eroi alle pareti non le sostituisco ma aggiungo mano a mano quelle degli ultimi arrivati. È comunque noto che io sia un tipo particolare; e ho quasi finito lo spazio libero sui muri, prima o poi toccherà cambiare casa.

Damiano

Damiano Tommasi (qui immortalato da Bill a cui sembra domandare “ancora tu, ma non dovevamo vederci più?”, con l’altro che pare rispondergli “checcevoifà Damià, è ‘nattimo, stacce”) non è uno che si vanti, ma potrebbe, di essere stato non solo un ottimo centrocampista, non solo MVP dell’anno santo

doo scudo 2000-2001, ma pure il giocatore accanto al quale Checco nostro è sceso in campo più volte. Un record per il quale lo invidiamo tutti davvero molto.

Inoltre, è forse uno dei pochi, se non l’unico, calciatore o ex tale della Roma che sappia dove si trovi Bra, perché c’è stato. E ce stavo pure io, quaa vorta, che ve lo dico a fare.
Il racconto di quell’occasione sarà prima o poi oggetto di opportuna narrazione di antefatti, contesti e contenuti, parola di lupetto giallorosso. Daje.


Daniele/Danielino

Daniele De Rossi, a destra, in un’immagine giovanile insieme al padre Alberto.

(qui la fonte)

Biondo, occhi azzurri, di Ostia, non stupisce che Tonino Cagnucci lo abbia definito il mare di Roma.

Non ricordo con precisione chi fu a chiamarlo Danielino quando, poco più che ventenne, figurava già stabilmente in prima squadra e in nazionale, ma sono abbastanza sicuro che sia stato Spalletti (Lucianone) durante la sua prima esperienza sulla panchina giallorossa.

Ricordo invece come se fosse ieri l’occasione in cui Daniele espresse, durante un’intervista, il suo più grande rammarico: avere una sola carriera da donare alla Roma. Semper fidelis.

Darklings

I Darklings sono irriverenti e spietate creature dell’oscurità (a loro modo pure simpatiche, dai) che compaiono in varie opere letterarie e non; nel nostro caso, il riferimento è agli agenti della Tenebra dell’universo narrativo di Darkness edito dalla Top Cow.

Detto che l’immagine qui proposta ritrae alcuni di essi in un disegno tratto dal web e realizzato, con buona probabilità, da Marc Silvestri, si tratta, in sintesi, di mostricciattoli di piccola taglia simili ai goblin de Il Signore degli Anelli, o di analoghe ambientazioni fantasy oppure soft horror.
Non proprio la migliore compagnia che si possa desiderare, specie nei momenti no. Tuttavia, c’è di peggio (fidatevi sulla parola).
Tanto vale, dunque, fare buon viso a cattivo gioco e – se proprio non se ne può fare a meno – stare per un po’ al loro, di gioco. Ma senza esagerare.
Presi a piccole dosi, possono perfino risultare stimolanti e suggerire qualche buona intuizione.

Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete1. Forse.


1 Quest’ultima frase (tranne il “forse” che è un’aggiunta mia) è la battuta conclusiva del celebre monologo finale di American Beauty, recitata Kevin Spacey nei panni del protagonista, Lester Burnham.