Il Barone

Nils Liedholm è stato un grande calciatore svedese, faro di centrocampo di un Milan d’altri tempi, e un allenatore se possibile ancora più grande, su varie panchine ma soprattutto su quella della Roma, cui è legato in modo indissolubile (non credo sia un caso se la foto che qui lo ritrae, tratta dalla pagina Wikipedia a lui dedicata, lo mostra con indosso la tuta daa Maggica).

Personaggio di grandi doti umane prima ancora che tecniche, fine umorista nordico, colui che ci insegnò come sia meglio far correre la palla anziché correrle appresso poiché lei, la palla, non suda, Liddas fu il tecnico del secondo storico scudetto giallorosso e colui che guidò la Roma al soglio di quello che – finora – rimane il gradino più alto mai raggiunto dalla società e dalla squadra.
Poi si può sempre migliorare, non poniamoci limiti, ma ancora oggi quel traguardo rimane ineguagliato, e dunque sempre daje, Barone nostro.


Il Bomber

Roberto Pruzzo, qui insieme a Bruno Conti in una foto tratta da questo articolo, è stato uno dei più grandi attaccanti che abbiano vestito la maglia della Roma.

Per oltre due decenni è rimasto capocannoniere all time nella storia daa Maggica, prima di venire sorpassato e più che doppiato da Checco, cosa che – al contrario di ciò che uno potrebbe pensare – è un onore di cui andare fieri. Ovvero, quello di meritare a vita la piazza d’onore, appunto, al fianco del più grande di tutti i tempi.

Campione d’Italia nell’anno santo 1982-83, tre volte capocannoniere della Serie A, Pruzzo ebbe un merito del tutto particolare che mi riguarda da vicino: fu lui a segnare il goal che mi distrasse da ciò che stavo facendo in quel momento, una sera di tanti anni fa, attraendomi verso la luce, verso una storia pazzesca e bellissima che non avrà mai fine, che se solo ci penso i brividi mi vengono. Sia sempre lode a te, Roberto Pruzzo.


Il Demone Biondo

É stato il capo di Bill in un tempo ormai remoto. Constatazione da leggersi con enorme sollievo.
Come lui stesso ha scritto, trattavasi di “uomo di piccola statura e paffutello, con un paio di baffoni biondo cenere e una chioma leonina del medesimo colore, pareva una sintesi fra il compianto Alberto Castagna e il professor Dairi di Jeeg Robot d’Acciaio“.

Professore del quale vediamo un’immagine tratta da qui, in una posa che neanche a farlo apposta si presta benissimo al paragone, dato il caratterino assai poco raccomandabile del suddetto boss.

In estrema sintesi, sempre per citare Bill, a fucking asshole.

É senz’altro possibile che questo “simpatico” personaggio possa tornare in qualche racconto futuro. Ecco dunque spiegato il motivo per cui gli si dedica una scheda segnaposto: giusto per non doverlo poi, nel caso, reintrodurre da capo.


Il Divino

Immagine tratta da qui

Paulo Roberto Falcão è un nome che chiunque, negli anni ’80, ma proprio chiunque, non poteva non conoscere, non aver sentito nemmeno una volta, né non sapere in che squadra giocasse.
Colui che, come scrive Tonino Cagnucci, sembrava sbarcato direttamente dal sole tanto era luce, segnò uno spartiacque nella storia della Roma: ci fu una Roma prima di Falcão, e un’altra Roma da lì in poi. Come prosegue Cagnucci, insieme a lui diventammo re. Pure io, che ancora non ne sapevo nulla, ma l’avrei scoperto non molto tempo dopo.

Ottavo re di Roma o semplicemente il Divino, Falcão rivestì un ruolo fondamentale nella forgiatura del gruppo che, sotto la guida di Nils Liedholm, arrivò a conquistare un meritatissimo secondo scudetto giallorosso, sfiorandone altri due in quegli stessi anni.

Ma non solo, per quanto mi riguarda. Nell’unica occasione in cui lo vidi giocare in diretta, Falcão, Ago e gli altri mi mostrarono qualcosa che forse era già nel mio destino ma che chissà, senza di loro, come sarebbe poi andata a finire.

Come mi è capitato di scrivere sui social, poco tempo fa, a suo figlio Giuseppe, lo vidi giocare una sola volta e mi persi molto di quegli anni meravigliosi, è vero: ma una volta fu sufficiente. Un Divino è per sempre. Come la Roma.

Obrigado Paulo.



Il mio dio canadese

James Howlett, aka Logan, aka Wolverine, aka il migliore in ciò che fa anche se ciò che sa fare meglio non è molto bello1 (e che possiamo vedere qui raffigurato in una statuetta votiva2), è l’archetipo dell’antieroe che vorrebbe starsene per i fatti suoi a scolarsi una cassa di birra in santa pace, ma che incontra sempre il tizio convinto di suonagliele e che finisce per scatenarne la furia animale.

Nato nella provincia dell’Alberta, in Canada, in un anno imprecisato del Diciannovesimo secolo più vicino al Diciottesimo che non il contrario,

da bambino era un pallido frugoletto malaticcio ma da allora ha fatto molta strada, guadagnandosi moltitudini di followers.

Famoso per il brutto carattere, gli artigli retrattili (che, come ben sanno i suoi fans, ha sempre posseduto e solo a un certo punto sono stati ricoperti di adamantio, come il resto delle sue ossa) e il fattore mutante di guarigione accelerata o, più semplicemente, il fattore rigenerante, nel mio personale pantheon è sia uomo che spirito animale – del resto prende il nome di battaglia da un mammifero carnivoro – e, al pari di altri dei dal secondo in poi, possiede un elemento peculiare quale, appunto, uno speciale metallo.

A questo punto magari vi starete chiedendo come mai, a differenza di Sandokan, non identifichi anche il buon vecchio Wolvie con Hugh Jackman, che ha interpretato il personaggio sul grande schermo.
Semplice. A differenza del Sandokan letterario, il personaggio di Logan/Wolverine era già pienamente e magnificamente caratterizzato nei fumetti della Marvel ben prima di diventare un character cinematografico. Jackman, che pure apprezzo e stimo moltissimo, è un Wolverine magnifico, ma si può forse dire che sia stato lui a venire valorizzato dal personaggio piuttosto che il contrario. In questo caso l’attore non è stato insomma determinante al pari di Kabir Bedi, anche se gli va riconosciuto, al buon Hugh, di averci messo anima e corpo ed essere rimasto fedele al suo Logan senza tradirne mai lo spirito.

Snikt!3


1 In originale, la celebre battuta del personaggio recita: “I am the best at what I do but what I do best isn’t very nice”.

2 Scherzo, ovviamente non si tratta di una statuetta votiva ma solo di una statuetta e basta, una delle tante dedicate al celebre artigliato dall’azienda californiana Sideshow. Nello specifico, trattasi dell’opera LOGAN Premium Format™ Figure by Sideshow Collectibles in versione Exclusive con testa alternativa, proprio questa col volto ghignante qui sopra, sulla cui fronte un qualche oggetto contundente ha portato via pelle e quant’altro facendo apparire il cranio ricoperto di metallo. É questo il motivo del ghigno, rivolto all’improvvido lanciatore, a cui il nostro sembra dire “non hai idea del guaio in cui ti sei appena cacciato”. All’inizio avevo dei dubbi sulla scelta espressiva dello scultore, ma ora riconosco che, esposta in apposita vetrinetta, la mia copia personale di questo simpatico wolvie-tributo fa la sua bella figura. Excelsior!

3 Celebre suono onomatopeico, associato all’estroflessione degli artigli da parte del buon vecchio Jimmy (v. anche qui).


Il primo dio della mia infanzia

Il primo dio della mia infanzia è Sandokan interpretato da Kabir Bedi, nello sceneggiato televisivo omonimo di Sergio Sollima del 1976, ispirato ai romanzi del ciclo indo-malese di Emilio Salgari.

Qui a lato vediamo una fotografia di scena dall’archivio personale di Kabir Bedi,

in cui il nostro brandisce l’iconica spada che tanto mi ha fatto sognare quand’ero bambino e ora i miei sogni li protegge (ma questa è un’altra storia, ci arriveremo).

Poiché il prode Kabir ha saputo conferire profondità, carisma e intramontabile fascino a un personaggio letterario tutto sommato piuttosto bidimensionale1, per estensione il primo dio della mia infanzia è Kabir Bedi stesso.

E dal momento che, nei romanzi come nella trasposizione televisiva, Sandokan è noto come La Tigre della Malesia (qui a fianco ne vediamo l’iconica bandiera che, per inciso, è un’autentica bandiera di un capo pirata malese dell’Ottocento2)

e i suoi uomini, i celeberrimi tigrotti di Mompracem, gli si rivolgono chiamandolo Tigre, ecco che il primo dio della mia infanzia è anch’esso una tigre; anzi, è l’idea stessa di una tigre.

Insomma, il primo dio della mia infanzia è uno e trino, uomo, animale e spirito guida, venuto dal mare e dalla giungla del sud-est asiatico.
Del resto, gli aspetti che verrebbero in mente pensando a Kabir Bedi sono gli stessi che verrebbe spontaneo associare al grande e magnifico felino: bellezza, fascino, eleganza, forza, nobiltà, temerarietà. Tutti accompagnati da un unico aggettivo: straordinario.

Lunga vita alla Tigre!

(Anch’io sono una Tigre3.
Modestamente.)


1 Mia opinione del tutto personale, è comunque noto che i romanzi di Salgari, al giorno d’oggi, vengano considerati letteratura avventurosa per bambini o al più di genere young adults. Nonostante ciò, per quel che ricordo da letture non recentissime seppur avvenute in età adulta, l’inventiva salgariana rimane notevole così come il ritmo delle sue storie, che a dispetto dei luoghi comuni io considero adatte a qualunque età. Un po’ come le scatole della Lego.

2 Immagine che peraltro è tratta dal sito www.bandiere.it (esiste davvero, non è uno scherzone à-la-Sheldon Cooper) su cui è possibile ordinarla, tale bandiera, e riceverla a casa dietro esborso di modica cifra. I did it.

3 Frase pronunciata da Sandokan nei confronti del malvagio Suyodhana, detto la Tigre delle Sundarbans, ne Le due tigri di Emilio Salgari. E citata pari pari da uno dei protagonisti de il Pendolo di Foucault di Umberto Eco.


Il Re

Stephen King, romanziere statunitense del Maine, autore di svariati best e long-seller dei quali a fianco vediamo la copertina di uno dei più celebri (messo qui non solo a titolo esemplificativo, trattandosi del suo primo romanzo che abbia letto e che rimane tuttora uno dei miei preferiti); non poteva che essere lui il “mio” Re.
Il motivo è sia letterale che letterario: ai miei occhi e non solo a quelli il buon vecchio zio Steve è una sorta di narratore supremo, un Dottor Strange della letteratura.

Come il suo omonimo1 eroe Marvel che custodisce l’Occhio di Agamotto, anche King è dotato di un terzo occhio. Un occhio della mente, lo sguardo sul mondo dell’eterno se stesso fanciullo, spalancato sul fantastico e sull’inverosimile.

King è peraltro l’unico che ancora respira fra gli scrittori che considero i miei numi tutelari, e dunque: lunga vita al Re!

I restanti fantastici quattro, in ordine di dipartita, sono: Ernest Hemingway dall’Illinois, USA, che credo non abbia bisogno di presentazioni.
Primo Levi da Torino, che si tende a ricordare in primis come autorevole testimone dell’Olocausto, stile misurato e sguardo limpido; cosa che gli si può ascrivere con pieno merito, senza però trascurarne l’alto profilo di scrittore tout court, capace di trattare con arguzia un ampio ventaglio di tematiche. Nei suoi confronti più ancora che verso gli altri provo un misto di affetto devozionale e gratitudine.
Franco Lucentini da Roma e Carlo Fruttero, di nuovo da Torino, fini cesellatori di parole e narratori godibili come pochi.

A questi cinque scrittori devo molto. Sia per le numerose, interessanti e piacevoli ore trascorse immerso nei loro scritti, nell’arco di ormai quasi quattro decenni. Sia perché sono coloro, con i propri stili e linguaggi peculiari, che avverto più in sintonia con il mio sentire, nel leggere come nello scrivere. Dalle loro parole traggo nutrimento e ispirazione.
Con questo non sto certo affermando né peraltro mi illudo di sapermi esprimere al loro pari, figuriamoci. Semplicemente, sono i fini tessitori di melodie che più spesso di altre mi riscopro di tanto in tanto a fischiettare.

Questo breve elenco di nomi e apprezzamenti non esaurisce la schiera dei miei autori preferiti; ne annovera soltanto i principali, quelli di più immediato riferimento. Ma ce ne sono altri.
Ne aggiungo qui solo un paio, i primi due che mi vengono in mente, giusto per gradire. Douglas Adams da Cambridge, Gran Bretagna, autore poliedrico e geniale – lo scrivo senza timore di un aggettivo spesso attribuito con troppa facilità – un altro che ha raggiunto troppo presto la radura in fondo al sentiero, per citare una delle tante memorabili espressioni del Re2.
La sua inventiva comica e linguistica riesce a essere così spiazzante e impetuosa che, leggendolo, mi alterno fra lo scoppiare a ridere da solo e restare a tal punto rapito di meraviglia da imbambolarmi con un sorriso di totale compiacimento. E Alessandro Baricco, terzo uomo da Torino. Punto. Metto un punto perché sono consapevole di quanto Baricco risulti divisivo, il che meriterebbe una trattazione a parte che rimando a un tempo e a una sede più opportuni.
Qui, ora, voglio solo dire – giacché al pari di King per fortuna anche Baricco ancora vive e lotta insieme a noi (pur se di recente non se l’è vista proprio bene): lunga vita all’araldo del Re!


1 Anche Strange è uno Stephen e si fregia del titolo di stregone supremo.

2 Per la precisione dall’octalogia de La Torre Nera.

Il secondo dio della mia infanzia

Duke Fleed con il suo robot Goldrake (qui la fonte)

Il secondo dio della mia infanzia venne dal cielo a bordo di un disco volante in una sera di aprile del 1978, con indosso la tuta di volo più figa che sia mai stata ideata, a partire dall’iconico casco (una cui copia fedele mi guarda dall’alto, qui di fronte a me, proprio mentre ne sto scrivendo).
E’ notizia di attualità, peraltro, che si stia preparando il suo secondo avvento1.

Il personaggio, la cui identità civile nell’originale giapponese è Daisuke Umon e che avremmo imparato a conoscere e amare come Actarus, fu lo straordinario protagonista di avventure del tutto nuove e rivoluzionarie per l’epoca, storie che ancora non sapevo di sognare ma di cui riconobbi immediatamente di avere bisogno.
Insieme a lui, valorizzato dal doppiaggio del grande Romano Malaspina, e al suo bellissimo robot dalla magnifica testa coi tratti squadrati e irta di corna grandi e piccole, nonché dotato di optional leggendari, il perimetro del mio immaginario si allargò di colpo a dismisura fino a non avere più confini, raggiungendo le stelle per un viaggio destinato a durare per sempre.

In verità ha fatto anche di più, per me. Ma questa è un’altra storia, che richiede il giusto spazio; ci arriveremo al momento opportuno.

Al tempo stesso uomo proveniente da un altro mondo e spirito guida in qualità di nobile cavaliere, poiché non si può fare a meno di associarlo al proprio possente mezzo meccanico e nemmeno, diciamolo, ci si sognerebbe di farlo, Actarus/Duke Fleed/Goldrake ha aggiunto alla mia personale equazione cosmogonica un nuovo elemento che da lì in poi sarebbe stato ricorrente in parecchi “colleghi”: una super-lega metallica.


1 Vedasi il link alla fonte dell’immagine di apertura.


Il Trono di Spade

Serie TV di genere medievale/fantasy tratta dai romanzi del ciclo Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin. Si può vedere qui un’immagine di lancio della quinta stagione.

Detto che nessuno mi toglierà mai dalla testa che i nomi riferiti a quelle due R, in mezzo al primo nome e al cognome, il buon Martin se li sia aggiunti apposta per richiamare l’assonanza con J. R. R. Tolkien (e, dal momento che ho appena googlato, ora so che il secondo nome che inizia per R se l’è davvero scelto lui, dunque forse ci ho visto giusto, eh eh), se conoscete almeno una delle due opere, ebbene, che ve lo dico a fare.
Se non le conoscete entrambe e l’argomento vi stuzzica, mi verrebbe da dirvi: orsù, addentratevi, che la notte è oscura e piena di terrori, e poi fuori fa freddo!

Per quello che so e che ho avuto modo di approfondire del medioevo, come ricostruzione storica di usi e costumi, intrighi e ammazzamenti, direi che la narrazione è piuttosto attendibile.

All’inizio c’è Sean Bean, che sembrerebbe interpretare una figura centrale, ma (come ti sbagli, finisce sempre così) muore quasi subito, proprio come ne Il Signore degli Anelli e senza nemmeno tutto quel pathos, i combattimenti, il suono del corno, ecc.
Mi piace immaginare che nei suoi contratti esista una clausola di indennizzo per morte prematura del personaggio.
Poi ci sono gli Estranei e varie altre bizzarre creature; qui l’attendibilità scricchiola un po’, ma se ne può godere piacevolmente.

Infine, ci sono i draghi. Checcefrega dell’attendibilità! Dracarys!


Il Vate

(Foto credits)

Bono, al secolo Paul David Hewson (il che avrebbe potuto fare di lui un perfetto “caro Dave”, a pensarci prima, anche se forse sarebbe stato osare troppo), cantante e attivista irlandese nonché voce e frontman degli U2, nonché uomo più figo dell’universo1.
La sua voce è un balsamo carezzevole che accende il mio fuoco e illumina la mia via2.
I suoi versi, non di rado, sono la via.
Apprezzo, ascolto e ammiro tanti musicisti e cantanti, ma non avrò mai altro Vate all’infuori di lui. Un Bono è per sempre. I love him.


1 La definizione è di Madonna, che nei credits del proprio album True Blue ringrazia l’allora marito Sean Penn, “the coolest guy in the universe”. Concordo con l’opinione di Luise Veronica sul fatto che Sean Penn, allora come oggi, sia un figo della madonna (mi si perdoni il gioco di parole) nonché un attore della madonna. E ha una pure una voce niente male, che induce ad ammirarne le interpretazioni godendosele con l’audio originale. Ma come Bono mai. Di Bono ce n’è uno. Fine della discussione.

2 Scherzoso accostamento di titoli fra Light my Fire dei Doors e Ultraviolet (Light My Way) degli U2.