Definire Diego Armando Maradona può essere complicato, viste le molte sfaccettature del calciatore e dell’uomo; cadere nell’agiografia è questione di un attimo. Ma, in fondo, definire Diego Armando Maradona è piuttosto semplice, tanto da sembrare quasi banale: il più grande di tutti. El diez per antonomasia. D’accordo, in altre pagine ho tenuto a specificare “dagli anni ’80 in poi”, ma solo perché Pelé l’ho potuto ammirare unicamente in filmati d’epoca e non dal vivo. A differenza di Diego. Due giocatori che, peraltro, se fossero appartenuti ai medesimi decenni avrebbero senza dubbio potuto giocare e incantare le folle insieme.
Diego sta al calcio come Leonardo da Vinci a tutto ciò che ha fatto. Genio e vivace complessità tesa a meravigliare con la sublime semplice bellezza del risultato finale. Perfino Leo Messi, che è il più grande di tutti del nostro tempo, nonostante la pura essenza calcistica di cui è dotato e che sa esprimere, nella propria frenetica e immarcabile abilità nello stretto appare tanto favoloso quanto (mi si perdoni l’aggettivo, che potrebbe suonare irriverente ma non vuole esserlo) in qualche modo inelegante. E, sia chiaro al di là di qualunque ombra di dubbio, io adoro Leo. Ma Diego è stato un’altra cosa. In alcuni momenti di assoluta perfezione, è stato tutto ciò che oseresti chiedere al calcio, e anche qualcosa di più.
Donovan è una persona reale, amico di vecchia data, ex compagno di scuola. Donovan non è il suo vero nome bensì quello con cui ha scelto di comparire nelle mie storie. Anche l’immagine proposta (tratta da qui) non è una sua vera foto, poiché Donovan è molto più affascinante di George Clooney.
Ok, a questa non ci crede nessuno.
Possiamo però affermare, senza tema di smentita, che Donovan sia un tipo decisamente affascinante e che non sarebbe affatto strano incontrarlo per strada, in qualche località vippissima, mentre se la racconta con il buon vecchio George.
Donovan, infatti, è quel che si dice un uomo di successo. Il grande pubblico non ha il privilegio di conoscerne il nome né ha particolare familiarità con il suo volto, ma gli capita più spesso che a qualunque persona io conosca di partecipare a eventi glamour o a trasmissioni televisive; finendo a volte per venire paparazzato accanto a splendide donne di spettacolo (tutte sue carissime amiche, peraltro) e, di conseguenza, di comparire in foto su testate nazionali, nelle vesti di un non meglio precisato “imprenditore del Nord”.
Il fatto, poi, che ti venga a raccontare tutto ciò con lo stesso tono di sorpresa e lo sguardo meravigliato di quando avevamo entrambi sedici anni, dice molto su che tipo di persona sia. Donovan è un ragazzo d’oro che, pur consapevole del proprio valore e amante di ciò che gli invidiosi potrebbero definire “bella vita”, non si è mai montato la testa e ti si presenta con la stessa semplicità e affabilità di sempre. Solo che oggigiorno lo fa con indosso un abito di Armani, of course, secondo il gusto e lo stile che non gli è mai mancato.
Abile conversatore, sempre disponibile per gli amici, estimatore del buon cibo e del buon vino; parrebbe quasi che io stia parlando di me. Solo che lui si alza tutti i giorni al canto del gallo per andare ad allenarsi in palestra, con tanto di prove filmate sui social. Dunque, decisamente, non può esservi alcun dubbio sul fatto che io, qui, non stia parlando di me. Nemmeno per sbaglio.
Edin Džeko è uno di quei giocatori così forti, di quelli che ammiri giusto negli highlights delle partite di Champions e speri di non doverci mai giocare contro,
che quando un giorno ti dicono che l’abbiam preso noi la prima reazione è domandare “ma che, davero?”.
Giusto per proporre un termine di paragone: le maglie della Roma che ho collezionato negli ultimi vent’anni o non hanno nome e numero sulla schiena, alcune, oppure – tutte le altre – portano il dieci e il cognome di Checco. Tutte tranne una. Indovinate di chi?
Esatto, proprio del cigno di Sarajevo. L’amore è Džeko. E anche se è una storia ormai finita, e che poteva finire meglio, non importa. Avere avuto il piacere di ammirare un talento del genere con indosso la maglia della Roma, aver gioito delle sue giocate sopraffine e delle caterve di goal che ha segnato per noi, alcuni dei quali di fattura talmente unica da farmi azzardare un paragone con l’Eterno (il Capitano, si capisce, non l’anziano barbuto del piano di sopra), è stato davvero grandioso.
Hvala, Edine1.
Nota a margine: l’immagine di cui sopra è tratta da qui, cioè, pensate un po’, da una testata indiana. Fin dove ci hai portato, ragazzo mio, fin dove hai fatto risuonare ancora una volta il nome di Roma!
1 “Grazie, Edin” (tradotto dal bosniaco, of course)
Edoardo Bove, qui in un’immagine da Il Romanista. Giovane ed energico centrocampista della Roma, di bella presenza, buon presente e (gli si augura di cuore) luminoso avvenire.
Uno dei “bambini” (Mourinho docet) provenienti dal vivaio. Indossa la maglia numero 52.
Stephan El Shaarawy, italo-egiziano e dunque faraone in pectore, è un bravo ragazzo e un professionista serio, attaccante esterno talentuoso ed elegante (qui ritratto in un’immagine ufficiale AS Roma), che avremmo voluto vedere in giallorosso fin dalle sue prime apparizioni su palcoscenici prestigiosi con indosso la maglia del Milan.
Il felice connubio avvenne durante il mercato invernale del 2016 e Stephan divenne immediatamente uno de noantri, per restarlo tuttora anche dopo un’andata e ritorno in Cina in seguito alla quale non ci parve vero di poterlo riabbracciare. Negli ultimi anni si è reso spesso risolutivo subentrando dalla panchina, ma al di là di prestazioni e segnature è uno di quei giocatori a cui si vuol bene a prescindere.
Giuseppe Giannini, Peppe per gli amici, Principe per gli estimatori (qui colto da Bill con sopra un faretto strategico che par quasi il riflesso di una corona), è un amatissimo ex capitano e numero dieci daa Maggica.
Il suo soprannome si deve all’eleganza con cui si muoveva sul campo, nonché al raffinato tocco di palla col quale dettava passaggi illuminanti per i compagni, fra cui il Tedesco Volante, e che non di rado gli consentiva di segnare goal belli e importanti. Non ha purtroppo vinto quanto avrebbe meritato, né con la Roma né in Nazionale, un destino peraltro toccato a molti grandi romanisti. Ma Roma e la Roma non dimenticano, e uno degli stendardi issati in curva Sud, quella volta, a ricordare al mondo e a quell’altri, i periferici, chi noi siamo, ha sopra disegnato il suo volto. Figlio di Roma, capitano e bandiera.
Eusebio Di Francesco è stato sia giocatore che allenatore della Roma, un po’ come Rudi e, soprattutto, Bruno Conti e Vincenzino. Nei panni di calciatore era un motorino di centrocampo inesauribile e, insieme a Damiano Tommasi e Gigi Di Biagio, andava a formare il pacchetto mediano tutto italico del 4-3-3 di Zeman, talvolta riproposto pari pari in Nazionale in quanto riuscito ed efficace assortimento di dinamismo, tecnica e visione di gioco.
Eusebio faceva parte della rosa che conquistò lo scudetto 2000-2001 (qui lo vediamo infatti con indosso la maglia di quella stagione, in un’immagine tratta dal web), ma giocò poco a causa di un serio infortunio occorsogli durante la preparazione estiva.
Da tecnico ha portato i colori giallorossi fino alla semifinale di Champions League, punto più alto della storia romanista eccezion fatta per quella certa partita di fine maggio ’84, che alla fine non si poté giocare e fu un peccato, ancora ci domandiamo tutti come sarebbe poi andata a finire.
Grazie a tale risultato, peraltro conseguito al suo primo anno da tecnico della Roma, il buon Di Fra si colloca al vertice del quartetto moderno di allenatori ex giocatori daa Maggica; non ho contezza che altri abbiano fatto in passato un percorso analogo (dal campo alla panchina sempre in ambito giallorosso, intendo) ma è certo che, pure se fosse, gli almanacchi non ne riportano particolari allori. Il secondo anno invece andò maluccio: forse il buon Eusebio ebbe qualche responsabilità, del resto a bordo campo ce stava lui mica io, tuttavia è indubbio che le maggiori colpe di quella stagione travagliata furono del peggior direttore sportivo mai transitato dagli uffici di Trigoria. Senzadubbiamente1.
1 Aulica citazione di Cetto La Qualunque interpretato da Antonio Albanese, of course.
Terzino sinistro del genere che una volta si sarebbe chiamato fluidificante (qui in una foto del 2018 insieme a Bill, che quella sera, proprio, manco fosse ‘n paparazzo). Cordialissimo, simpaticissimo e dalla lunga chioma bionda, Balza è famoso per avere sposato un’etoile e per aver segnato un goal pesantissimo nel primo derby della Roma di Rudi Garcia, quello che si doveva assolutamente vincere.
Nell’occasione, poiché giocava con il numero 42, diede un nuovo significato circa la risposta alla domanda fondamentale sull’universo, la vita e tutto quanto: conquistare l’immortalità segnando un goal decisivo in un derby, sotto la curva Sud.
Francesco Costa (qui in un’immagine tratta da qui) è un giornalista, scrittore e autore di podcast e, a mio modesto quanto insindacabile giudizio, eccelle in tutte e tre le categorie. Peraltro vicedirettore de Il Post e conduttore di Morning, ha un nome bellissimo1 ed è pure romanista2: come non volergli bene.
Di recente ho avuto l’occasione e il piacere di incontrarlo presso il Circolo dei Lettori di Torino, dove Francesco e il peraltro direttore Luca Sofri intervengono con buona regolarità nell’esercizio delle loro funzioni, conducendo una rassegna stampa commentata dal vivo dal titolo I giornali, spiegati bene. Nel caso siate della zona, ma anche se non lo siete, vi consiglio vivamente di tenere d’occhio il calendario degli eventi del Circolo e assicurarvi un posto per i loro prossimi interventi, perché ne vale davvero la pena, fidatevi. Ma pure per gli interventi di altri ospiti, si capisce, che in siffatto luogo ameno le proposte e le occasioni di gaudente arricchimento sono molteplici, non se ne avrebbe mai abbastanza.
Con Francesco ho anche avuto il privilegio di un breve scambio epistolare. Breve nel senso che è stato un botta e risposta, perché la mail che gli avevo indirizzato, che ve lo dico a fare, concisa non le era affatto. Francesco non solo mi ha usato la cortesia di rispondermi, usando belle parole nei miei confronti, ma non si è lasciato intimorire dal rischio di incoraggiare, così facendo, la mia prolissità. Un coraggio non comune e di cui gli va dato atto. Lo scrivo senza alcuna ironia.
1 Non so se sia il caso di spiegarlo, ma nel dubbio lo faccio: il nome di Francesco lo accomuna a quello del nostro Capitano Eterno (sempre sia lodato). Nostro nel senso di noi romanisti, daje.
2 Scopro oggi una nota biografica che non avevo fin qui ancora colto: Francesco è nato il 21 aprile. Il ventuno di aprile. Non so se mi capite: il giorno del Natale di Roma. Io davvero non so più che dire, sarei quasi invidioso se non fossi così ammirato: romanista dell’anno, santo subito!
Fondata nel 1900, la Società Sportiva Lazio scelse come proprio il nome della regione di appartenenza, anziché quello della città.
Una cosa che ai primi del Novecento facevano parecchie altre squadre: esistevano infatti il Piemonte, la Liguria, e così via.
La parola chiave è “esistevano”. Di tali compagini si è persa ogni traccia da prima che Berta filasse: al giorno d’oggi, l’unica società di calcio professionistica che ancora porti il nome di una regione, o per meglio dire di un territorio, è il Südtirol, per ovvie motivazioni identitarie.
Il calcio, fra l’altro, non fu fra le discipline contemplate dalla suddetta polisportiva all’atto della propria costituzione, che annoverava podismo e canottaggio. Poi, a un certo punto piacque loro pure il pallone, e potrei anche disturbarmi a verificare in quale anno inizino a comparire negli annali dei campionati di calcio, ma francamente me ne infischio.
Fu questo, probabilmente, cioè lo scopo per cui tale esimia società venne fondata, a ispirare i costituendi nel prendere spunto, per i colori, dalla bandiera della Grecia, antica patria delle Olimpiadi.
Peccato che la bandiera greca sia bianca e blu, come si può ben notare nell’immagine tratta da Wikipedia. Invece l’esimia società podistica scelse il bianco e l’azzurro, vai a sapere perché, con predominanza di quest’ultimo.
Da cui, ça va sans dire, essi meritano e meriteranno per sempre l’appellativo di “sbiaditi1“.
Come simbolo scelsero l’aquila, in onore dell’aquila imperiale romana, e fu l’unica cosa davvero azzeccata che fecero per sottolineare un qualche legame di appartenenza alla romanità. Solo che con quest’aquila c’hanno fatto du maroni tanti. Negli ultimi anni hanno pure avuto la brillante idea di ingaggiare un falconiere, che ne libera una, di aquila, prima delle loro partite in casa; il povero nobile animale si fa un voletto nella porzione di cielo racchiuso dalla copertura dello stadio Olimpico e poi torna a posarsi sul guantone del suo conduttore. Come se la Roma, prima delle partite, mandasse fuori la propria mascotte a portare al guinzaglio un vero lupo ridotto in cattività, facendogli fare un giro di campo a guisa di scimmietta ammaestrata. Che tristezza.
Per quest’altro motivo, fra gli sfottò romanisti versus laziali comparve a un certo punto il motto “povero gabbiano” (come quello raffigurato in apertura e tratto da qui), che in romanesco viene contratto in un più efficace “poro gabbiano”.
Per chi non ne fosse a conoscenza, giova ricordare che sia l’esimia società che i propri tifosi nutrono un’autentica ossessione nei confronti della Roma: non mancano di ribadire a ogni piè sospinto un loro presunto diritto di primogenitura e di effettiva e peculiare rappresentanza della città di Roma2. Di cui non portano né il nome né i colori, ancora disponibili e dunque giustamente fatti propri da Italo Foschi e dai presidenti delle altre società di calcio romane dell’epoca (tutte tranne l’esimia, si capisce, che nell’occasione avrebbe voluto mantenere sia nome che colori propri e rimpinguare le proprie casse con gli apporti di quelle altrui), allorché, nel 1927, scelsero di fondarsi per costituire l’Associazione Sportiva Roma, sempre sia lodata e con essa i padri fondatori.
La Roma divenne ben presto la squadra più tifata e seguita della Capitale, così è stato da allora ed è ancora più marcato ai giorni nostri: recenti studi condotti con rigore scientifico hanno certificato ciò che già era noto e verificabile: ovvero che, calcisticamente parlando, Roma è giallorossa; il tifo laziale è minoritario in ogni zona della città e prevale perlopiù nelle periferie e nei centri limitrofi. L’esimia società, peraltro, nella Città Eterna che pretende di rappresentare, non ha nemmeno la sede: la sua sede sociale è a Formello, comune a se stante che non fa dunque parte di Roma Capitale (a differenza di Ostia, ad esempio, da cui proviene il nostro Danielino).
Credo che, a questo punto, sia superfluo spiegare per quale motivo, nel modo più neutro e meno irrispettoso possibile, io sia solito riferirmi ai “cuggini” come ai “periferici”.
1 A dire il vero, qualche anno fa ci fu un gruppo (o forse più di uno, ma non ha importanza), all’interno del tifo organizzato laziale, che tentò di risolvere questa contraddizione al grido di “noi siamo i biancoblù”, senza riscuotere molto successo. Tifo organizzato laziale, peraltro, di cui ampie branche sono dichiaratamente e orgogliosamente fasciste, meritando quindi appieno l’appellativo spregiativo dedicato loro dai tifosi giallorossi: “fogna de sta città”.
2 Potrebbe sembrare un’innocua questione di campanilismo, e in fondo lo è, perché, diciamocelo, chisselincula quelli. Ma i loro rappresentanti societari e non pochi tifosi si rendono spesso e volentieri protagonisti, sui social e non solo, di certi cortocircuiti mentali tanto assurdi da indurmi talvolta a pensare, al pari di Rami Malek in Mr. Robot, “non so nemmeno più cosa sia reale”.