Kevin

Considerato il miglior Under 23 a livello europeo della sua generazione, arrivato a Roma Kevin Strootman scese dall’aereo, firmò il contratto ed entrò subito nel cuore dei tifosi, lui che di cuore, di carattere e di gamba ne aveva da vendere.

Purtroppo una delle sue gambe, anzi, delle ginocchia, si ruppe più volte nell’arco di pochi mesi, rovinando la crescita di un giocatore di livello assoluto; che dopo di allora continua a giocare e a dare il fritto, come si dice, ma non è più l’iradiddio che conoscemmo in giallorosso.

Grandi capacità di interdizione e riproposizione, un’attitudine a ripulire palloni difficili (dunque “sporchi”) che gli valse il soprannome di “lavatrice”, è stato il classico centrocampista box-to-box che puoi vedere fermare da par suo un’azione avversaria al limite della propria area di rigore e, dopo poche falcate, andare a concludere in rete dall’altra parte del campo.
Per la sua dedizione alla causa e il suo spirito guerriero, prima ancora che per la sfortuna che lo ha perseguitato, Kevin resterà sempre uno di noi.

Due curiosità: la prima è che, come proprio numero di maglia, Kevin scelse il 6 che fu di Aldair e che la Roma aveva ritirato in onore del grande Pluto, il quale approvò senza riserve.

La seconda è più personale: ho assistito dal vivo alla sua ultima partita in giallorosso, in un Torino-Roma di inizio stagione 2018 in cui vincemmo nel finale con tiro al volo di Edin, senza sapere che sarebbe stata la sua ultima con noi. Dopo il match gli venne comunicato che – con sorpresa di tutti – era stato ceduto all’Olympique Marsiglia, e la cosa avvenne in chiusura di mercato, quando non era ormai più possibile ingaggiare un sostituto all’altezza. L’ennesima genialata di un direttore tecnico arrivato con le stimmate del fenomeno e che si rivelò essere, invece, na sola come tante.

La Curva Sud

Fonte Corriere dello Sport

E’ il settore dello Stadio Olimpico di Roma che tradizionalmente ospita i gruppi del tifo organizzato romanista e le coreografie pre-partita più ambiziose e riuscite, in particolar modo in occasione dei derby co quell’artri, i periferici.

Cuore pulsante del sostegno alla squadra giallorossa, arricchito di bandieroni e striscioni storici, da qui partono i canti e i cori trascinanti che vanno a coinvolgere tutto lo stadio, dei quali in calce trovate un breve esempio; è sotto di essa che i giocatori corrono ad esultare dopo un goal ed è dove la squadra si reca a festeggiare dopo una vittoria. Assistere a un derby in Curva Sud è una di quelle esperienze che non ti aspetti e che non dimenticherai più, provare per credere.

I capitani della Roma che l’arbitro chiama a sé a centrocampo prima della gara, per il rituale sorteggio campo o palla, sono soliti scegliere di iniziare la partita con il supporto della Curva alle spalle, e attaccare verso di essa nel secondo tempo, quello decisivo.
Se pensate che in fondo si tratta di professionisti e che il calore e l’energia dell’incitamento dagli spalti non faccia poi tutta quella differenza, o non siete mai entrati in uno stadio di calcio a seguire una partita (e meno che mai siete stati a vedere la Roma giocare in casa di fronte a sessanta/settantamila spettatori; non è una colpa così grave, in fondo può capitare a chiunque e siete sempre in tempo a rimediare, daje), o siete forse abituati a tifoserie più compassate, che preferiscono trascorrere il tempo della gara a insultare la squadra avversaria piuttosto che sostenere la propria1 (e a maggior ragione, in questo caso, vale lo stesso consiglio di cui sopra).

Se i tuoi colori sventolo
I brividi mi vengono
Non mi stanco mai di te
Forza Grande Roma Alé


1 Qualunque riferimento al pubblico che usa raccogliersi in un impianto di dimensioni modeste sito alla periferia di una grande città piemontese è del tutto casuale. Parola di lupetto giallorosso.

La mia dea madre

La mia dea madre è Roma. L’avreste mai detto? Intesa come città, come storia, come sentimento, in definitiva come stato d’animo. Avrei potuto scegliere di personificarla in Cibele, che era stata accolta nel pantheon romano identificandola in Rea, la dea madre di tutti gli dei. Ma non mi interessano i culti anatolici o ellenistici fatti propri dall’Impero Romano. Mi interessa l’idea stessa di Roma.

E il simbolo di questa idea non poteva che essere la lupa capitolina, così ben rappresentata dal logo realizzato per la Roma da Piero Gratton nel 1978 – il celeberrimo “lupetto” – talmente innovativo e stilisticamente perfetto da essere divenuto un simbolo senza tempo, amatissimo e utilizzato ancora oggi.

Un momento, direte voi, ma stai parlando di Roma o della Roma?
Di entrambe.

Roma, dea madre e fonte di vita, dea dell’amore, dell’accoglienza e del focolare, dea dei viaggiatori e custode della memoria.
Di cui la squadra è stata, è e sempre sarà, per me, l’araldo.

Un po’ come Silver Surfer per Galactus, diciamo. Però mejo. Avoja.


La prima squadra di Torino

Il Torino, o più familiarmente il Toro (qui in una foto di gruppo tratta da Wikipedia, che ritrae la rosa con indosso l’iconica divisa ornata dello scudetto 1975-76,

l’ultimo finora conquistato dai granata; a testimonianza di quanto tempo, purtroppo, sia passato da allora, si può notare come Ciccio Graziani, quarto in piedi da destra, avesse ancora i capelli), il Toro, dicevo, è squadra gloriosa nonché geograficamente prossima verso cui nutro stima e rispetto.

Tutta la mia storia di tifoso di calcio, fin dall’inizio, è punteggiata dai miei rapporti con amici e tifosi granata, nonché con la squadra vera e propria. Rapporti sulle prime non troppo amichevoli, poi col tempo le cose sono migliorate, vedendomi spesso fianco a fianco di uno o più “colleghi” intento nel prestare la mia passione sportiva alla loro causa; al cospetto di una curva, la Maratona, fra le poche cui riconosca di poter rivaleggiare con la nostra Sud.
Tutto ciò purché, ovviamente, di fronte non ci fosse o non ci sia la Roma, perché va bene stima e rispetto ma esageruma nen1.


1 “Non esageriamo” in piemontese, of course.


La seconda squadra di Torino

Premesso che Torino è stata e resterà granata, l’altra squadra torinese è purtroppo anche la più nota in Italia e nel mondo, non sempre e non solo per meriti sportivi. Ci arriviamo.

Fin dall’inizio della mia storia di tifoso ci sono sempre stati loro, gli odiati bianconeri, a contendere vittorie e soddisfazioni alla mia Roma. Non è un caso che abbia scelto come foto rappresentativa una famosa immagine del loro più celebre e celebrato campione dell’epoca (tratta da qui). E a me più antipatico, peraltro.
Tolto il derby, che è sempre opportuno tentare di vincere senza se e senza ma, per ribadire a quegli altri, i periferici, che il nostro nome è il simbolo della loro eterna sconfitta, le sfide contro la Juventus per me sono la madre di tutte le partite, che si giochi in casa o fuori.

Società, giocatori (non tutti, ma parecchi) e tifosi (idem) juventini1, dagli anni ’80 in poi, rappresentano per me la più concreta incarnazione di arroganza, presunzione, spocchia, desiderio di prevaricazione e pretesa di impunità.
Hanno perfino la faccia tosta di esporre, nel proprio stadio, le effigi di due scudetti che sono stati loro revocati per tutte le malefatte che sono riusciti a compiere prima che li beccassero e li spedissero in serie B senza passare dal via; e li conteggiano pure ufficialmente, quei due titoli inesistenti, con la Lega Calcio italiana che chiude un occhio su questo come su ben più spinosi “dettagli”, in virtù della pax calcistica nazionale e della “tutela del brand” della Serie A.

Non stupisce che la Vecchia Signora sia amata da una buona metà dei tifosi di calcio italiani (pochi a Torino, of course, ma tantissimi nelle periferie e nel resto d’Italia, pure troppi, diciamolo), soprattutto perché trattasi di squadra spesso vincente a livello nazionale – mentre la palma di vincente in senso assoluto spetta di diritto al Milan – e sia odiata dall’altra metà, senza distinzione di appartenenza a questa o quella tifoseria.

Si potrebbe sostenere che sia, questo, il destino dei vincenti, ovvero di risultare divisivi.
Se non fosse che la medesima società vanta anche il non lusinghiero primato di essere la più chiacchierata, indagata, prescritta, condannata e patteggiata d’Italia.
Qualcosa vorrà pur dire, e di certo non che si tratti di una società perseguitata, come sostengono alcuni suoi tifosi, incapaci di separare la legittima passione per la propria squadra dal giudizio sulle colpe di dirigenti ciclicamente incapaci e colti con le mani nel sacco.


1 A onor del vero, per fortuna, conosco anche diversi tifosi juventini “moderati” coi quali si può parlare di calcio in modo oggettivo, senza buttarla in caciara o sul “noi abbiamo vinto tutto, di che vogliamo parlare?” oppure sul “noi DOBBIAMO vincere perché siamo i più forti, punto” (del resto uno dei loro più famosi giocatori e dirigenti, Giampiero Boniperti, sosteneva che “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, frase che gente ben più competente e neutrale di me in materia sportiva giudica semplicemente aberrante; ma che è stata fatta propria sia dalla tifoseria che da alcuni campioni più recenti, come ad esempio Alex del Piero, che considera una tale affermazione alla stregua di un prezioso insegnamento, sic). Peccato che, nel mucchio, tali tifosi per bene siano sempre troppo pochi.


Le Roi

Di IPP – Platini, dal Nancy alla Uefa, su sportmediaset.mediaset.it, 18 giugno 2019., Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4349150

Michel Platini, ex calciatore, ex allenatore ed ex dirigente sportivo, è stato uno dei più grandi numeri 10 a livello mondiale dagli anni ’80 in poi.
Non a caso ho voluto omaggiarlo qui con un’immagine che lo ritrae al fianco del più grande di tutti, sempre dagli anni ’80 in poi.
Non mi ha mai suscitato grande simpatia, che indossasse il pigiama (pardon) la maglia a righe bianconere o la bleu de la France. Ma a pallone sapeva giocare come pochi, glielo si deve riconoscere. Il solo problema è che ne fosse fin troppo consapevole, cosa che – unita a quell’alone di spocchia francese che viene spontaneo leggere in faccia a qualunque transalpino solo per il fatto che sia francese (cosa che magari è solo un’impressione condizionata dal pregiudizio, poesse) e dal fatto di giocare nella Juventus (cosa che non potrà mai essere solo un’impressione) – faceva sì che se la tirasse pure come pochi; e che continui a tirarsela ancora ai giorni nostri, quando il ricordo dei suoi trascorsi su un campo da calcio non è certo sbiadito ma si riferisce ormai a qualche tempo fa.


Luciano

Da non confondersi con il tecnico Spalletti (Lucianone) col quale non ha nulla in comune men che meno il carattere spigoloso, Luciano è una persona reale e nella vita si occupa di aiutare le altre persone a ritrovare un po’ del loro benessere.

Luciano infatti è uno psichiatra e psicoterapeuta, ma soprattutto è un uomo di profonde conoscenze, dai modi garbati e dalla vivace curiosità, che sa porsi all’ascolto degli altri senza mai dare l’impressione di avere pronta la soluzione per ogni esigenza.
La soluzione, o semmai la direzione da perseguire e verso cui tendere, la si trova insieme, attraverso un sereno percorso di dialogo e confronto di esperienze e punti di vista.

Incontrare Luciano è stata ed è tuttora una delle migliori fortune che mi siano mai capitate. Non dubito che esistano, da qualche parte, professionisti altrettanto seri, preparati, amabili e capaci di fornire un supporto concreto; io però non li conosco.

E poiché preferisco parlare soltanto di ciò che conosco, nel caso in cui foste in cerca di uno bravo davvero – per necessità o anche solo per un suggerimento autorevole – e vi trovaste comodi in zona, vi dico: rivolgetevi pure a lui con fiducia.

Penso che, poi, mi ringrazierete.

(In verità non è che lo penso, ne sono certo, ma uso la formula dubitativa per non sembrare troppo presuntuoso).



Mire

Miralem Pjanić, Mire per gli amici (qui ritratto in una foto presa da qui), come parecchi sportivi di origine balcanica

parla un italiano migliore di quanto sappiano fare tanti madrelingua.

In più parla francese, inglese, tedesco, e non escludo che abbia già imparato pure l’arabo.

Arrivato alla Roma ancora giovanissimo, appena 21 anni e già colonna dell’Olympique Lione – con cui si era fatto notare sui palcoscenici del calcio europeo d’élite meritandosi il soprannome di “pianista” – è rimasto in giallorosso 5 anni nei quali ha mostrato di avere testa fina e piedi sopraffini, meritandosi il soprannome di “principino” e la sincera amicizia di Checco, garanzia di qualità.

Nei suoi 5 anni alla Roma non riesce purtroppo a vincere nulla, così decide di trasferirsi alla Juventus con cui inizia subito a inanellare trofei di un certo peso.
Molti suoi ex tifosi miei correligionari non gli perdonano questo tradimento, io non sono fra questi. Anche se poche cose mi fanno sanguinare gli occhi come vedere un mio stimato ex indossare delle strisce pedonali, dal punto di vista di un calciatore professionista (peraltro non romano e nemmeno italiano) che ambisca a un avanzamento di carriera, la sua fu una scelta comprensibile che merita rispetto.
Del resto, mica è andato a giocare in periferia1.


1 Velatissimo riferimento agli sbiaditi.


Montemario (tribuna)

Fonte A.S.Roma

Monte Mario è un’altura che sorge sulla riva destra del Tevere nella zona nord-ovest di Roma, dalla quale prende il proprio nome la tribuna dello Stadio Olimpico orientata in direzione di essa. Sapete come si chiama invece la tribuna opposta? Chi ha risposto “Tevere” ha indovinato, oppure è stato lesto a controllare la mappa qui sopra.
In effetti, la tribuna di fronte alla Montemario sorge a poca distanza dalla suddetta riva destra. Aggiungiamoci le curve, Nord e Sud come i punti cardinali, e la nomenclatura delle quattro aree dello stadio è fatta.

La Montemario ospita i settori più prestigiosi e costosi, i palchi delle autorità, la sala stampa e le postazioni per radio e TV, i box esclusivi tipo quelli che si vedono nei film di Hollywood che raccontano storie di baseball o di football americano, nonché le aree di ristoro per gli ospiti VIP, i frequentatori più abbienti e i loro invitati (dove se magna e se beve, ‘nsomma, poi se avanza tempo per buttare un occhio alla partita, mejo).
Essendoci stato, pur se finora una sola volta – in cotanta hospitality area, intendo -, posso dire che si tratta di un’esperienza superiore alle aspettative e di quelle a cui ci si può abituare fin troppo bene, purché si abbia denaro da spendere o si conosca qualcuno che ti inviti.
E’ facile incontrarvi personaggi famosi della politica e dello spettacolo, allenatori e CT della Nazionale e soprattutto ex calciatori giallorossi che, se approcciati con il dovuto garbo ed educazione, si dimostrano persone disponibili e alla mano come chiunque altro.
Del resto, per loro si tratta di situazioni abituali in un contesto che a tutti gli effetti è un po’ come se fosse casa propria.

Il lato di campo della tribuna Montemario è quello da cui vengono effettuate le riprese televisive della partite, il lato da cui si affacciano le uscite degli spogliatoi e dal quale dunque i giocatori escono sul terreno di gioco, e verso cui si schierano per gli inni e il saluto pre-partita.
Per chi sia abituato a seguire le partite della Roma in TV si tratta quindi di una prospettiva molto familiare. E’ anche la prospettiva da cui ho veduto dal vivo Checco entrare in campo per la sua ultima partita con la sola maglia che abbia mai indossato, e dalla quale più tardi l’ho visto iniziare un giro di campo infinito che lo avrebbe portato a consumare tutte le sue lacrime e noi le nostre.
Non vado spesso in Montemario, ma quando capita ne porto a casa quasi sempre ricordi affatto banali.